martedì 18 maggio 2010

Mentali nomadismi pomeridiani

Prima di addentrarmi in più o meno coerenti elucubrazioni mentali di vario genere, vorrei parlarvi di un film che ho visto la settimana scorsa (visto che stiamo qui per parlare di cinema). Si tratta di Junebug, film indipendente che è stato in grado di arrivare agli Oscar grazie all'interpretazione di Amy Adams e che - credo- non sia mai uscito sui nostri italici schermi. Un film che mette in scena lo scontro tra due realtà diverse come la provincia americana e una grande metropoli come Chicago, attraverso i personaggi che le abitano e le rappresentano. I "provincialotti" del North Carolina (che parlano un inglese poco comprensibile anche alle più esperte orecchie) appaiono strani alla colta gallerista dell'Illinois, sono un mondo a parte, con le proprie tradizioni e codici che lei pian piano, tra un passo falso e l'altro, riesce a comprendere, pur rimandendone sempre ai bordi. A sua volta, questa "straniera" è una sorta di fenomeno da baraccone arrivato in paese a scombussolare le esistenze di tutti, ammirata da alcuni, vista con disprezzo da altri. In questo incontro-scontro, ogni personaggio è caratterizzato da una propria "freakkagine", piccole manie quotidiane che altro non sono che un modo per farsi notare, per superare quella sensazione di invisibilità, per evitare la solitudine e farsi accettare. Riuscirano i nostri eroi a superare queste barriere? La risposta, a mio parere, è vaga, aperta a più interpretazioni.



Ora, che c'entra questo film con i nostri amletici dilemmi? Secondo me, c'entra eccome. Lo scorso giovedì, più andavamo avanti con la nostra seduta pseudo-psicanalitica, più mi venivano in mente le scene di questo film. Devo ammettere che lì per lì la confusione era tanta, ma ripensandoci credo che un filo conduttore si possa facilmente trovare nelle nostre esperienze. Ciò che ci spinge nei nostri arzigogolati detour (!) cittadini è il bisogno di entrare in contatto con gli altri, di emergere dalle Particelle Elementari che sono le nostre esistenze. La metropoli ci fa sentire soli, come molti di voi hanno giustamente sottolineato nei post precedenti, ma, al tempo stesso, ci fa sentire parte di un tutto, come la particella fa parte di una molecola. La metropoli ci obbliga molto pirandellianamente a vestire i panni di Uno, nessuno, centomila, lottando per ritrovare noi stessi tra le tante maschere. A volte ci costringe ad una lotta all'ultimo sangue con gli altri e con noi stessi, altre ci porta ad una mite rassegnazione. Chi è allora il freak? Un individuo che cerca la propria Happiness? Chi tenta di sentirsi meno solo facendosi accettare dagli altri? Oppure siamo tutti un po' freak? La risposta è sì, sì e sì.



The photographer is an armed version of the solitary walker reconnoitering, stalking, cruising the urban inferno, the voyeuristic stroller who discovers the city as a landscape of voluptuous extremes. Adept of the joys of watching, connoisseur of empathy, the flâneur finds the world 'picturesque'.

Così scriveva Susan Sontag. E credo che, da critici in erba quali siamo, il nostro compito sia proprio quello di usare il cinema così come il fotografo usa la sua macchina, cercando di fotografare, tra un empatico voyeurismo e un distaccato coinvolgimento, la realtà che ci circonda. Forse tutto ciò sta arrecando ancora più confusione alla vostre brillanti menti. Di certo la mia somiglia ancora a una nebulosa. Ma, tra queste nebbie, credo che riusciremo a trovare la giusta strada.

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