martedì 18 maggio 2010

Freak e Solitudine

Credo che ognuno di noi si sia dimostrato entusiasta della proposta "freak" perché il termine ha innumerevoli chiavi di lettura ed interpretazioni. E, infatti, nelle descrizioni che ho letto sono pochi i punti in comune. Com'erano pochi quelli emersi durante la lezione dello scorso giovedì. E' difficile mettere d'accordo dieci o più teste su un argomento, se non impossibile. La vasta gamma di accezioni che può assumere la parola "freak" è parsa fare al caso nostro. Ho ascoltato molto attentamente le storie raccontate e letto con altrettata puntigliosità (più volte) i post precedenti. Forse sbaglierò, però mi sembra evidente quanto, più che di freak, qui si parli di disagio all'interno della società, soprattutto a contatto con una grande città, una metropoli. La difficoltà nel riuscire ad esprimere sé stessi, persino a capire esattamente chi siamo. Questo riassumendo barbaramente un'infinità di concetti assai più profondi. E' qui però che, con tutto il rispetto, non mi trovo minimamente d'accordo con la maggior parte di voi. E' un discorso talmente complesso da costringermi a rimboccarmi le maniche prima di formularlo, conscio dell'impossibilità di toccare ogni aspetto a dovere. Scoprirò l'acqua calda ma la parola chiave è: solitudine (e non a caso è stata una delle altre concrete proposte). Ognuno la combatte con le proprie armi, ognuno la vive a modo suo. Ogni azione, intenzione, pensiero, progetto, aspettativa, sogno, tutto è compiuto nel tentativo di ovviare a questa spiacevole condizione umana. C'è chi si sente meno solo in compagnia, chi leggendo un buon libro o vedendo un film. Ma questo non fa di nessuno un freak. L'epica battaglia contro le forze oscure della solitudine porta in luoghi in cui ci si sente a disagio, in situazioni in cui si dissimula la vera essenza di noi stessi, dedali emozionali da cui nessun filo di Arianna è in grado di tirarci fuori. Non può essere freak chi soffre perché non riesce a trovare la propria strada, è solo questione di tempismo, di fortuna, di scelte sbagliate o giuste, quasi sempre casuali. Sono estremamente convinto che ogni essere umano soffra di una forma, seppur lieve, di autismo. E per autismo intendo l'incapacità, più o meno marcata, di uscire dal proprio schema di ragionamento mentale. Ma questo, signori miei (e signore mie), è porca puttana stranormale.
Ok, tutto questo panegirico è il risultato di ciò che ho percepito alla fine del brain storming della settimana scorsa, rialaborato dopo un'attenta analisi (manco troppo attenta). Se non siete d'accordo, vi autorizzo a mandarmi affanculo co du mano e la voce di Mike Buongiorno adesso.
E qui mi riallaccio al concetto di "freak" e cosa rappresenta per me. Non importa tanto che abbia menomazioni fisiche, come la donna barbuta; ciò che fa di un essere umano un freak è la percezione che tutto il mondo ha di lui. E non parlo di uno sparuto gruppo di individui che lo additano come diverso solo perché è distante dalle loro concezioni. Il freak è unico nel suo genere, è inconcepibile, non ci si può mettere nei suoi panni anche provandoci. Può essere una discriminante negativa come positiva, su questo non metto bocca. Può essere Rain Man o il Joker. Ma di sicuro è un caso clinico che neppure il più brillante degli psichiatri riuscirà a risolvere.
Chiudendo, metto in piazza un pensiero non necessariamente sensato. Tutto quel condividere, quel parlare, mi ha fatto venire in mente un film. Complice soprattutto la scia immaginaria tracciata su un'inesistente mappa di Roma, che ci collega inesorabilmente. Il film è "I Heart Huckabees". Chi l'ha visto, credo capisca il perché.

Saluti e baci

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